“La zattera della Medusa” (selezionato e pubblicato nell’Antologia “Italian Noir 2”)

L’aria soffocante era satura di violenza e di morte. Dalle assi sconnesse filtrava una luce nostalgica.

«C’era stata vita là fuori − la sua vita − un giorno lontano…» pensò Bruce.

Lì dentro, invece, un cimitero caotico di braccia, teste e gambe si accatastava in mucchi disordinati di decomposizione.

Lui e i suoi cinque amici, si erano studiati da lontano per giorni, quindi si erano aggrediti verbalmente. La tensione fendeva l’aria come una lama affilatissima.

Il passo, dalle parole ai fatti, era stato breve e inevitabile. Vi erano state le prime aggressioni fisiche, con qualche occhio contuso e qualche spalla slogata.

Quarantotto ore dopo l’inizio della segregazione in quel tugurio, il cervello di tutti era partito, completamente fritto dai sintomi devastanti dell’astinenza da cibo, da roba e da aria pura.

Le narici, invase dall’odore rivoltante delle proprie e altrui feci, fremevano di disgusto e di raccapriccio. Una tremenda verità scardinò con violenza ogni freno inibitorio: la presenza degli altri era nociva e sottraeva ossigeno alla propria sopravvivenza.

Le tenebre della seconda notte, trascorsa rinchiusi nel magazzino, furono letali per la maggior parte di loro. C’erano attrezzi da lavoro e da giardinaggio appoggiati alle rastrelliere arrugginite. Tutti, a un tratto, vennero folgorati dalla stessa furia omicida. Voglia di sopravvivere, certo. Ma, soprattutto, desiderio incontenibile di uccidere.

Brancolando nel buio, s’impadronirono dell’oggetto più affilato che capitò loro sottomano.

I primi fendenti alla cieca. Gli ansimi, gli urli di rabbia e di dolore, le imprecazioni e infine… i colpi andati a segno e le grida strazianti. Non erano più uomini ma bestie al macello e i versi emessi, in punto di morte, erano simili a quelli di maiali sgozzati.

Bruce era l’unico sopravvissuto alla terribile mattanza. La ferita infertagli, con un colpo di falcetto, dal defunto Adrian, aveva aperto sul suo ventre rigonfio un taglio a forma di luna. Dal satellite fatto di sangue e brandelli di carne, spuntavano le interiora. Il palmo aperto della mano tratteneva tutto quello che poteva, il resto sgocciolava fuori in uno stillicidio esasperante di odio e rancore.

Consapevole del fatto che presto sarebbe giunto anche per lui il momento del trapasso, decise di compiere un ultimo gesto provocatorio e irriverente, rivolto a chi − e lui aveva una precisa idea circa l’ideatore dell’intera faccenda, quell’ispettore di polizia col viso ghiacciato in un’espressione di rancoroso disprezzo − li aveva costretti a uccidersi l’un l’altro, come animali.

Si rammentò a un tratto della magnifica Eleanor. Tutti l’adoravano. Non si poteva essere immuni a quel fascino antico di donna leggendaria. A guardarla e ascoltarla comprendevi e giustificavi gli uomini che, nel corso della storia, si erano suicidati per amore. Una volta, nel bel mezzo di una lezione, in cui erano capitati vicini di posto, gli aveva concesso un pensiero. Lui non si ricordava di che cosa si stesse parlando, ma saltò fuori questa cosa immensa dell’Ikebana, l’arte giapponese di comporre i fiori, come offerta votiva agli dei. La traduzione letterale della parola, lei aveva spiegato in un sussurro di voce, che gli aveva rimescolato le viscere − le stesse che oggi (chi l’avrebbe mai detto allora!) teneva in mano e gli ciondolavano per un bel tratto, come un guinzaglio sanguinolento − era “fiori viventi”.

Eleanor, stupefacente ed enigmatica, un mistero di ragazza che non si concedeva a nessuno. La sua inaccessibilità era stata violata in un modo bestiale. Il branco, le droghe, la frustrazione e la violenza, avevano potuto laddove la volontà della ragazza aveva posto un divieto assoluto.

La traballante lucidità di Bruce, adesso, non concedeva spazio a ragionamenti complicati. Tornando all’arte di comporre i fiori, un’idea malsana gli era balenata nel cervello, ormai in pappa: l’arte di comporre gli arti. Lui, Bruce Dickens, nel pieno delle sue incapacità mentali, con la morte che gli alitava sul collo, avrebbe realizzato una macabra composizione con l’unico fiore maledetto a sua disposizione: la mano mozzata dell’amico NicKo (l’aveva riconosciuta grazie al ridicolo anello, sormontato da una testa cornuta di diavolo, infilato sull’anulare). Mentre conficcava lo stelo reciso dell’osso radiale nello spazio rimasto fra alcune assi sconnesse del pavimento, Bruce canterellava una canzone e pensava a quanto sarebbe stata bella la sua composizione di fiori morti.

« … And so we lay, we lay in the same grave our chemical wedding day and so we lay, we lay in the same grave… ».

Un fiotto copioso di sangue gli colò dall’angolo della bocca lungo il collo. Fece in tempo a sollevare il dito medio di Nicko, nero di cancrena, pochi istanti prima di morire.

 

Sette giorni dopo.

 

La sigaretta gli penzolava insolente dalla bocca. Il pensiero che quei saccenti della scientifica, con le loro cuffiette, mascherine e pennellini, lo avrebbero nuovamente redarguito per via della cenere, disseminata un po’ ovunque sul pavimento, gli dipinse sul viso un sorriso beffardo. D’altra parte era consapevole che i colleghi, abituati al suo disprezzo per il codice e ai suoi tentativi, quasi ostentati, di inquinare la scena del crimine, si erano rassegnati a scansare, dall’elenco delle prove da esaminare, i residui delle immonde Belomorkanal da lui fumate.

«… Questa qui è la porcheria che si lascia dietro quello stronzo di Crowley!».

L’ispettore Crowley adorava le sigarette russe. Il modo rustico col quale erano confezionate le insolite papirose la diceva lunga sulla personalità di un loro estimatore: una sorta di bocchino, realizzato con un cilindro di cartone, alla cui estremità viene inserita una piccola cartina, ripiegata alla meglio, contenente trentacinque milligrammi di puro catrame. In breve un sapore fortissimo, rude, arcigno, selvaggio, in un contenitore dall’aspetto grossolano, che spesso si presta all’utilizzo della marijuana.

Se per uno scherzo beffardo del destino, un omicida, fumatore di Belomorkanal, avesse lasciato alcune tracce del suo passaggio, sarebbe stato del tutto ignorato per colpa del deprecabile precedente.

All’ispettore Crowley non fregava nulla della sua cattiva fama. La parte più condiscendente e generosa dei suoi colleghi lo definiva “il puttaniere”, per via delle torbide relazioni da lui intrattenute con le spogliarelliste dei locali a luci rosse, mentre quella più severa e risentita lo riteneva un maniaco schizofrenico, affetto da una forma aberrante di necrofilia.

In realtà, Alan Crowley considerava la morte l’orgasmo allucinato di una vita puttana. Gli essere umani si rassegnano a credere, che si tratti di un fatto del tutto naturale: si nasce, si vive e si muore. Invece, non vi era nulla di più artificioso, secondo il pensiero Crowleiano, della morte. Entità tanto finta e infida da non sapere nemmeno cosa farsene di quei corpi voluttuosamente stramazzati. Al suo passaggio lasciava una lunga scia di cadaveri, noncurante e impietosa, di fronte a qualsiasi forma di decomposizione.

Anche quel giorno, nel momento in cui varcò l’ingresso del magazzino e un miasma di carne putrefatta gli riempì le narici, il primo pensiero di Alan fu: «Morte, sei passata di qui? Dall’odore pare che ci toccherà pulire per un bel po’!».

Membra umane erano disseminate ovunque in un macabro puzzle da ricomporre. Il sangue rappreso, sorvolato da un impercettibile ronzio di mosche, sembrava il sigillo in ceralacca apposto sui trapassati, ma non vi era alcuna possibilità di mettere in dubbio l’autenticità di quei cadaveri.

Una cosa, più di tutte le altre, attirò la sua attenzione: una mano conficcata nelle assi irregolari del pavimento, al centro della stanza. L’osso radiale, completamente spolpato serviva da puntello. Il palmo era serrato in un pugno. Le nocche bianche sporgevano da brandelli violacei di pelle. Un solo dito, il medio, si ergeva solitario e impettito in un beffardo vaffanculo urlato silenziosamente dall’oltretomba.

L’ispettore iniziò a ridere, prima facendo sobbalzare il petto in una sorta di singhiozzo convulso, poi in maniera sempre più sguaiata, con il tipico grugnito catarroso dei fumatori accaniti.

Dovette attendere che l’eccesso di tosse passasse, quindi, si fece avanti di un passo, gettò la cicca della sua Belomorkanal a terra e, con una lieve rotazione del piede, la schiacciò assieme al dito eretto.

Il movimento produsse un suono croccante di ossa spezzate e uno gelatinoso di polpa maciullata.

L’esecuzione di morte per mano propria aveva dimostrato, l’ennesima volta, di essere lo strumento di giustizia più efficace.

 

Un mese prima.       

 

«Dichiaro gli imputati Dave Milian, Bruce Dickens, Steve Taylor, Nicko Hill, Adrian Costa e Janick Purdy, per il reato loro ascritto di omicidio… innocenti!».

Il giudice aveva sentenziato con il cipiglio autoritario e distratto, esibito da chi è certo di aver reso giustizia non solo alla causa discussa in quella mediocre aula di tribunale, ma al mondo intero.

L’incredulità e lo sgomento, dipinto sul volto dei familiari della vittima, era pari a quello manifestato il giorno in cui era stato loro comunicato il decesso di Eleanor, brillante studentessa di appena ventuno anni.

Nello stesso istante in cui il proprio sguardo incontrò l’espressione impotente e frustrata del Procuratore, l’ispettore incaricato delle indagini, Alan Crowley, seppe che si sarebbe occupato della faccenda a modo suo. Avrebbe trasformato un magazzino di periferia in una nuova, terrificante zattera della Medusa, facendo naufragare per sempre quelle sei inutili vite.

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http://isognidicarmilla.wordpress.com/2013/12/07/disponibile-lantologia-italian-noir-2/

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