1816, l’anno senza estate

1816, the year without a summer” è il titolo di una canzone dei Rasputina, gruppo musicale steampunk americano, che rammenta la bizzarra anomalia di un anno privo d’estate.

La Natura sembrava essersi rivoltata piena di sdegno contro l’uomo: in pieno giugno una spessa coltre di neve si adagiò surreale e compatta sui campi di grano appena germogliati dell’Europa settentrionale e del nord America. Un intero raccolto estivo venne bruciato dal gelo. La carestia fu una conseguenza inevitabile del capriccio climatico. Incalcolabili le vittime decimate dalla fame e dal freddo.

Gli studiosi, dopo decenni di approfondite analisi, sono giunti alla conclusione che l’insolito fenomeno meteorologico sia stato causato dall’eruzione del vulcano Tambora, nell’attuale Indonesia, avvenuta nell’aprile dell’anno precedente. L’eruzione disperse negli strati superiori dell’atmosfera grandissime quantità di cenere vulcanica, creando una sorta di velo, che non consentì alla luce solare di arrivare sino alla superficie terrestre.

In realtà, un fenomeno simile a questo si verificò molti secoli prima: il 1258 fu un anno privo di estate, al pari del famigerato e ben più noto 1816. Colpevole, inutile dirlo, anche questa volta, un vulcano. Per giunta sempre indonesiano: il Salamas.

Soltanto l’eruzione più recente, però, fu responsabile di prodigiose ispirazioni intellettuali. Cieli striati da suggestive lingue di fuoco color porpora e campi incolti ricoperti di ghiaccio riuscirono, nonostante tutto, a far germogliare il seme pervicace della conoscenza umana.

La cenere dispersa nell’atmosfera terrestre rese ancor più romantici i tramonti di quella prima metà dell’ottocento.  William Turner, “il pittore della luce”, ritenuto non a caso, coi suoi giochi cangianti di riverberi, il precursore dell’impressionismo francese, s’ispirò alle incredibili sfumature vermiglie assunte dal cielo, per dipingere paesaggi visionari, come il magnifico “Rain, speed and steam”, pioggia, vapore e velocità, in cui la sagoma di un treno in corsa su un ponte è appena percepibile nell’aria di vapore e fiamme circostanti.

Masterpieces Art Paintings Hd Wallpapers (Vol.03 ) Fine Art Painting Turner, Joseph Mallord William Rain, Speed And Steam, 1844 , London, National Gallery Of Art

Le copiose nevicate che flagellarono il nord Europa, d’altra parte, costrinsero un gruppo di scrittori a riunirsi attorno al fuoco scoppiettante del loro rifugio estivo a villa Diodati, nei pressi di Ginevra.

Lord Byron, John William Polidori, Percy B. Shelley e sua moglie Mary, annoiati da quella strana estate, flagellata da tempeste di neve, decisero di trascorrere il tempo sfidandosi in una gara, che avrebbe premiato lo scrittore più bravo nel realizzare una storia di orrore. Fu proprio in tale occasione che una giovanissima Mary Shelley (appena ventunenne) creò il romanzo gotico per eccellenza: Frankenstein.

villa_diodati

Cos’hanno in comune un treno lanciato a massima velocità su un ponte immaginario di luce sfavillante e un mostro creato in laboratorio con pezzi dissezionati di cadaveri, animato attraverso la scarica elettrica di un fulmine? Hanno in comune, ed è esattamente qui che volevo arrivare, la scintilla della vita e la consapevolezza del perenne conflitto fra creatore e opera d’arte, fra uomo e Natura.

“Da dove, mi chiedevo spesso, deriva il principio della vita? Era un interrogativo ben arduo, uno di quelli che sono sempre stati considerati senza risposta, e tuttavia di quante cose potremmo venire a conoscenza se codardia e negligenza non ostacolassero la nostra ricerca!”.

Nel 1816, mentre la Natura si prendeva gioco dell’essere umano, schiacciandolo sotto il peso insostenibile di un clima rigido, pregno di morte e di disperazione, degli artisti visionari e talentuosi, in un ultimo rigurgito di ribellione, si presero la loro rivincita, costruendo treni e creando fantastici surrogati umani.

Perchè in fondo è questo lo scopo principale dell’arte: consolare l’uomo dalla sua innata fragilità.

Frankenstein

September gold

“Golden hour”: i fotografi adoperano un termine evocativo per definire il breve intervallo a cavallo dell’alba e del tramonto. Due momenti della giornata in cui è possibile realizzare immagini impreziosite dai colori caldi e avvolgenti dell’oro. La luce ha dita trepidanti e il tocco soave di una carezza. Le ombre lentamente si allungano e nei punti in cui l’oscurità si addensa, la Natura stessa sembra trattenere il respiro. I gialli e i rossi sono carichi e vibranti, si depositano sugli oggetti con il calore liquido della pittura a olio. Anche l’aria appare più rarefatta: polline e pulviscolo galleggiano leggeri come presagi.

Bisogna affrettarsi a scegliere la giusta inquadratura, gareggiare con il sole e la sua incredibile capacità di levarsi e scomparire all’orizzonte. Il disco di luce in quei sessanta minuti si trasforma nel sovreccitato Bianconiglio di Alice: «È tardi! Sono in ritardo! In arciritardissimo!».

Personalmente odio fare le cose di fretta. L’arte, in particolar modo, richiede tempo e calma. Così riflettevo: Perché limitarsi a sfruttare un’ora soltanto, quando esiste un intero mese d’oro, il “Golden month”, a cavallo fra la luce sfavillante dell’estate e il triste grigiore invernale?

Settembre. Il sole, in questa fase dell’anno, sembra inchinarsi ossequioso su un tappeto di foglie ingiallite. Niente più frenesie e fanatismi. La malinconia inizia a serpeggiare scrocchiante e dolciastra fra i grappoli d’uva e i fichi maturi.

Come tutti i nati in questo periodo, possiedo una parte luminosa bellissima, ma bisogna fare attenzione alle ampie zone d’ombra, in cui potrebbero sprofondare i più incauti e distratti.

Attendo questo mese con la stessa trepidazione che avevo da bambina, sapendo che arriveranno il mio compleanno e i miei regali. Aspetto fiduciosa di ricevere doni. Osservo i colori, annuso i profumi e riassaporo il gusto di un’infanzia ormai lontana.

Teletrasportata dagli audaci voli della mia immaginazione, torno immediatamente ai magnifici “Golden years”, gli anni settanta. Gli anni dell’amore e delle rivoluzioni. Gli anni degli hippy, dei loro vestiti comodi, decorati con fiori, nei colori caldi dell’oro e del cremisi. Abiti fatti a mano, realizzazioni originali come le tie-dyed shirts, che rammentano l’intensità cromatica di tramonti infuocati e la ruvidezza delle foglie appassite. Chitarre tenute in braccio come figli da cullare. Falò accesi per scaldare i cuori. Viaggi alla ricerca di se stessi. Slogan e poesia. Sogni e delusioni. Musiche e droghe. Spleen and love. Nostalgie di settembre.

Gli hippy possiedono tutto il calore sfrontato, esibito da un’estate giunta ormai al suo termine.

Settembre è arrivato anche quest’anno, con le sue tiepide promesse pronunciate a mezza voce. Non importa, poi, se l’inverno le infrangerà col suo caratteristico rigore. Ciò che importa è porgere l’orecchio a quel sussurro e fantasticarci sopra, giusto il tempo di una breve canzone.

Come direbbe Neil Diamond: «September morning still can make me feel that way», «Giorno di Settembre riesci ancora a farmi sentire in quel modo».

Chiara

Amo i gatti.
L’anima selvaggia e scaltra ben celata nel piccolo corpo elastico e nelle iridi screziate. Taglienti fessure, dischiuse in un varco ultraterreno inaccessibile.
Amo i libri.
La possibilità che ti concedono di essere chiunque, altrove e in ogni tempo, restando ferma. Le pupille incollate agli inafferrabili caratteri, le dita aggrappate alle pagine inconsistenti.
Amo le montagne e i boschi che le popolano.
La sensazione di essere esaminata dagli occhi curiosi ma discreti della Natura. Compagna inesplicabile, di frequentate solitudini.
Amo il mare.
Liquida sostanza impregnata di rabbia e di sale. Distillato prezioso di tempeste trascorse e di misteri abissali.
Amo ferire, imbrattare e mettere a dura prova il mio corpo.
Per constatarne il limite, per curiosità infantile e per avvertire quel senso di spossatezza, che è inspiegabile fonte di appagamento e di soddisfazione.
Amo la luna.
Il gesto curioso con cui si affaccia ogni notte per scrutarmi, domandandosi cosa appaia realmente al di là del mio volto visibile.
Amo il mio nome.
La luminosa intensità del suo significato e l’ombra sinistra proiettata dalla sua sostanza.