La casa delle Signore Buie, Pupi Avati, Roberto Gandus – Golem Edizioni

Nella Sicilia di fine ‘700, l’amore tra il conte Morè Barreca e la bellissima Assunta è contrastato dalle responsabilità familiari, che richiedono che il giovane nobile sposi Nunzia, primogenita del marchese Macola e sorella maggiore della ragazza. Riusciranno la distanza e il confino nel monastero della “Contemplazione della morte” a spezzare un legame profondo e sincero? Tra oscure pratiche, rituali perversi e inquietanti misteri, la speranza ha la forma di un aquilone: può levarsi in volo alla prima brezza marina, ma il filo che lo sostiene è più delicato della seta.

Dal genio visionario di Pupi Avati e Roberto Gandus, un romanzo che prende spunto dalle cronache dell’archivio delle indagini tribunalizie della città di Noto.

 

Dopo “La casa dalle finestre che ridono”, un’altra inquietante dimora fa da scenario a una storia conturbante, di quelle che ti strisciano sotto la pelle per giorni e giorni, facendoti sussultare per ogni scricchiolio udito nel silenzio della notte.

“La casa delle Signore Buie”, a differenza del primo capolavoro mistery del regista bolognese, e di tante altre sue pellicole di successo, non è ambientata in Emilia, fra le nebbie della Bassa Padana, ma nell’assolatissima Siracusa.

Il tufo giallo, con cui è costruita la splendida città barocca di Noto, rende ancor più fiammeggiante la narrazione.

A questo proposito, vorrei sottolineare il sapiente gioco di alternanza, nella trama, fra luce e buio, sole e ombra: da un lato il chiarore infuocato dei vicoli mezzi deserti, delle campagne cosparse di ulivi e, dall’altro lato, l’oscurità della Casa delle Signore Buie, delle sue stanze claustrofobiche, dei suoi corridoi labirintici, le cui mura continuano a essudare una sostanza maleodorante.

La Casa delle Signore Buie è lontanissima dal sole e dalle note agrumate di Noto, è sperduta al largo delle coste siracusane, e circondata da un mare nerissimo. I gozzi che si avventurano per raggiungere le sue sponde devono navigare “a fiuto”, seguendo la rotta dell’istinto e del coraggio, e vengono accolti da un triste rintocco lontano di campana, che li guida nell’ultimo tratto, laddove la nebbia si fa più fitta.

L’alternanza – luce, buio – è ripetuta anche nelle voci narranti: quella piena di vita e di coraggio del conte Morè Barreca e quella sempre più spenta e scoraggiata della povera Assunta.

La mia passione per i villains mi ha portato subito ad adorare, già dal nome, la malvagia direttrice della Casa, Orietta del Presagio. Un personaggio che spunta fuori dalle cortine di velluto nero che coprono le alte finestre e che trasuda orrore come le mura della sua Casa.

“Orietta del Presagio era sofferente a un braccio, lo reggeva nell’incavo dell’altro, ma ciò non le impediva di stringere fra pollice e indice una piccola lima con cui rendeva taglienti le unghie dell’indice, del medio e dell’anulare con gesto ossessivo; teneva le spalle rivolte alla stretta finestra, in controluce la sua sagoma era, se possibile, ancora più enigmatica.”

Il Sacro Contagio, che deturpa la sua anima, di cui sono intrise le bende che ne avvolgono il braccio purulento, che contamina il suo fiato mefitico, la rende disturbante. Disturbante al pari di tutte quelle creature sinistre che vivono e respirano sulla terra, ma che hanno un piede calzato a fondo nell’Inferno e dall’Inferno traggono una forza soprannaturale.

Orietta è la sacra ancella della Morte, sua serva devota.

“In questo luogo la vita e la morte si confondono in modo inestricabile… Quello che i vostri preti rigettano con orrore ha assunto qui una sua magnificenza…”

La Morte travalica ogni confine razionale e diventa un capolavoro, al pari dell’enigmatico affresco raffigurante il martirio di San Sebastiano, ne “La casa dalle finestre che ridono”, a proposito del quale si diceva: “Solo un grande artista può dare un senso così… così vero alla morte”.

Un capolavoro da ammirare. Non a caso, secondo quanto affermato dal coautore, Roberto Gandus, l’idea narrativa nasce durante una visita di Pupi Avati a un antico convento delle monache Clarisse, nell’isola di Ischia. Nei sotterranei dell’imponente costruzione un’incredibile sorpresa: degli enormi troni in pietra sui quali venivano deposte le monache defunte. Al centro del sedile un buco, e sotto, in terra, un buiolo. I corpi lasciati lì a consumarsi producevano del liquami, che venivano poi raccolti nei bacili.

Questo macabro rituale, di cui ora restano a testimonianza gli inquietanti scanni, serviva a riunire le monache vive nei sotterranei in modo che potessero “contemplare la morte”, assistere cioè al deperimento del corpo, inutile contenitore dell’anima.

D’altra parte, “L’uomo è un’anima che trascina un cadavere. Noi deploriamo come morte il suo stancarsi, alla fine, di fare da spazzino”, diceva Guido Ceronetti.