I colori del Male, Lidia Del Gaudio – Lettere Animate Edizioni

“Marie si era alzata, in silenzio aveva camminato fino al grande

salotto e aveva squarciato col coltello il quadro davanti al quale

aveva trovato il ragazzo. Non aveva guardato cosa raffigurasse, non

le interessava, per lei era solo la causa della smorfia crudele sul volto

del suo tesoro, un ghigno che l’aveva reso irriconoscibile, gli aveva

risucchiato il fiato e lasciato la bocca aperta in un urlo muto.

Non si era neppure accorta dei canarini che giacevano stecchiti sul

fondo della gabbia.”

Va bene, va bene, lo ammetto. Ho una passione, neanche troppo nascosta, per le storie che raccontano di quadri, pittori maledetti ed entità maligne annidate nelle sfumature più oscure di una tela. Ma credetemi, “I colori del Male” è un romanzo che si fa amare a prescindere dalle propensioni soggettive del lettore.

La struttura narrativa, con i dosati flash back, capaci di ritrarre in maniera fedele scorci storici fra i più inquietanti del nostro passato, è orchestrata in maniera impeccabile.

Pochi tratti efficaci delineano i contorni salienti dei personaggi. Sono sufficienti un gesto o una frase per intuirne l’anima.

Le parti descrittive e quelle introspettive si amalgamano alla perfezione, dividendosi equamente lo spazio delimitato della cornice.

I dialoghi non concedono nulla al caso. Sono pennellate decise e vibranti. Di tanto in tanto lasciano gocciolare segreti, intuizioni, allusioni.

L’intero romanzo è un dipinto nello stile dannato di Caravaggio. Un chiaroscuro che evidenzia ombre, dando volume ai recessi dell’io. Una lumeggiatura che esplode, accecante, nei pochi tratti in cui è percepibile la soluzione dell’enigma.

A proposito di ombreggiature. Vi siete mai chiesti che intensità abbiano i “Colori del Male”?

No? Bene, sono qui per spiegarvelo.

Prendete le tinte cupe del terrore infantile. Tanto per intenderci, quelle utilizzate nel romanzo capolavoro di Stephen King, “IT”.

Adesso, mescolatele con la sfumatura mortifera che infetta il ritratto di Dorian Gray.

Ecco, così, esattamente! Avete ottenuto la giusta nuance.

Milo, il bambino undicenne protagonista del romanzo, potrebbe entrare a pieno titolo nelle fila dei piccoli “Perdenti” di Derry. La mamma è morta recentemente e il papà è continuamente distratto dal suo lavoro di scrittore. Le vacanze estive, trascorse in Umbria, nel vecchio casale del nonno, vengono turbate da un sogno ricorrente. Da quando Milo si è introdotto furtivamente, in compagnia della sua amichetta Daniela, in una cantina abbandonata piena di oggetti antichi, sottraendone alcuni per sfida, un lamento di bambini straccioni, lacrimosi e affamati ha iniziato a farsi strada nella sua mente intorpidita dal sonno.

Sul coro dei piccoli “Perdenti” si alza la voce seducente di Coquin Mechant, il modello preferito del pittore André Dubois. Il dipinto che lo ritrae in tutta la sua bellezza, vagamente esotica e maliziosa, custodisce il segreto di un morbo appestante, capace di mietere vittime innocenti ogni volta che, nel corso della storia, passa di mano in mano. Coquin conosce il segreto dell’immortalità, esattamente come il mito di Dorian Gray.

Iniziate a sentirla anche voi questa nenia infantile?

Sì. Ne ero certa.

Uno strepito dissonante di carillon invade le mie orecchie. Una vocina beffarda mi intima di cercare il “quadro maledetto”. La curiosità (accidenti a lei!) mi consente di trovare quasi subito ciò che sospettavo già, in cuor mio, esistesse. Ecco qui:

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The Hands Resist Him (1972), è un dipinto dell’artista Bill Stoneham che ritrae un bambino e una bambola dalle orbite vuote. Le loro figure inquietanti si stagliano di fronte a una porta a vetri. Una miriade di minuscoli palmi premono disperatamente contro il vetro, come se volessero superare quell’ideale confine che separa il mondo reale e quello dei sogni.

Gli ultimi proprietari del dipinto lo avevano recuperato per caso nel deposito di una vecchia fabbrica abbandonata. Dopo averlo tenuto con sé per un po’ di tempo, se ne erano liberati perché convinti che si trattasse di un’opera maledetta. Essi sostenevano che durante la notte il bambino e la bambola si muovessero e che il personaggio femminile impugnasse una pistola con cui minacciava il personaggio maschile, costringendolo a uscire dal quadro. Stoneham apparve molto sorpreso dal clamore suscitato dalla sua opera. Secondo lui l’arma impugnata dalla bambola non era altro che una batteria.

Soltanto una leggenda montata ad arte sul web? Forse. O forse no.

Magari i quadri maledetti esistono davvero. In “The Hands resist him” non è certamente raffigurato il nostro “Coquin Mechant”, ma resta comunque quella sensazione straziante di vocine lamentose che squarciano il tempo e lo spazio, per giungere sino a noi.

Mi viene in mente la frase di Paul Valéry riportata nell’incipit del romanzo: Il pittore non deve dipingere quel che vede, ma quel che si vedrà.

Lo stesso potrebbe dirsi per lo scrittore. Egli non deve raccontare quello che accade, ma quello che accadrebbe SE.

Lidia Del Gaudio, autrice del romanzo “I colori del Male”, ha instillato in me il dubbio, prepotente e invincibile, che  il male si approfitti in maniera subdola delle debolezze umane per affermare il suo potere. Allora, quale tempio migliore vi potrebbe essere di un dipinto, ove sacrificare la più riprovevole delle debolezze umane?

Quella per cui si brama il successo, la fama, il potere. La debolezza in nome della quale si combattono guerre, si uccidono persone innocenti, si è disposti a tradire, rubare e corrompere. La debolezza dell’uomo prediletta dal Male: la vanità.

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http://www.ibs.it/ebook/del-gaudio-lidia/colori-del-male/9788868820435.html